(da Ameglia Informa di dicembre 2021)

Da Ameglia a Sarzana – 1ª Parte

Non fu un’infanzia facile, quella di Sandro Lagomarsini.

Nato il 29 gennaio del 1940 ad Ameglia, di fatto conobbe il padre, partito per la guerra il 2 giugno dello stesso anno, solo nei primi giorni di agosto del 1945, quando aveva cinque anni e mezzo. Marino Lagomarsini, così si chiamava il padre, fu fatto prigioniero quasi subito in Africa, a Massaua, e per due-tre anni non diede notizie di sé. Era prigioniero in Scozia, vicino alle Highlands. “Tornò qualche mese dopo la fine della guerra perché gli inglesi gli fecero fare il taglio del grano.

Era magrissimo – mi racconta don Sandro –, ricordo che mangiavo poco perché mi davano fastidio le tonsille, e che lui, scandalizzato per la tanta fame che aveva fatto, scappò di casa scandalizzato”. Marino sbarcava il lunario spaccando le pietre nelle cave di Camisano – “mia madre non riusciva a togliergli la fame” –, poi fece il cameriere nella nave “Nebulosa” dell’Agip, in Centroamerica. Al giovane Sandro mancò la figura paterna, il ruolo dominante lo ebbe la madre, che governava la casa, si occupava dei figli – Sandro aveva una sorella e un fratello – e lavorava nei campi.

La 2ª elementare della scuola Silvio Pellico di Ameglia – anno scolastico 1946-’47 –
Sandro Lagomarsini è contrassegnato da un cerchio (archivio Lagomarsini)

Dopo la scuola elementare Silvio Pellico ad Ameglia, dalle suore di Lugo di Romagna, Sandro frequentò la scuola media Carducci di Sarzana, di cui ricorda l’insegnante Ciriaco Corlito: “Dopo la prima media rifiutò la torta di mia madre, dicendo che l’avrebbe accettata solo dopo la licenza media… Leggeva le lettere dal carcere di Luigi Settembrini e si commuoveva”.

Poi si iscrisse al Liceo Classico Parentucelli di Sarzana, dove è ricordato come “ottimo studente”.

La vocazione sacerdotale arrivò nel 1957-1958. Non fu la famiglia ad indirizzarlo, come avveniva allora in molti casi. Mi dice don Sandro: “Fu una mia scelta. I miei genitori cercarono in tutti i modi di scoraggiarmi, la presero male. Andavano in chiesa ma votavano per i repubblicani. Frequentavo l’Azione Cattolica, avevo letto le opere di G.K. Chesterton, l’autore dei racconti di padre Brown, e di Thomas Merton, monaco pacifista, esponenti di un cattolicesimo che vive con la cultura migliore del suo tempo”.

Il campo scuola di Azione Cattolica ad Antey Saint-André – 1959 – Sandro Lagomarsini è contrassegnato da un cerchio (archivio Lagomarsini) 

Sandro entrò in seminario nel 1958, nel 1959 diresse un campo scuola dell’Azione Cattolica a Antey Saint-André, in Val d’Aosta. Un amico dirigente dell’Azione Cattolica di Genova, Giorgio Dani, gli fece avere “Esperienze pastorali” di don Lorenzo Milani, libro già ritirato dal commercio, e don Dino Ricchetti, il Rettore del Seminario, gli diede il permesso di leggerlo:

“Il Concilio Vaticano Secondo e don Milani, sono stati i miei punti di riferimento fondamentali”. (nota 1)

Un “maestro” tra i docenti del Seminario, invece, non lo trovò: “Sono stato un orfano”, mi dice. Anche se ha parole di stima per don Ricchetti e per don Lino Crovara. “Sono sempre stato un ribelle – continua –, in Seminario si mangiava male, e io protestavo”.

L’impeto al rinnovamento del giovane seminarista si espresse in primo luogo in un campo in cui i cattolici del tempo erano molto impegnati, il “cineclubismo”:

Nel 1962 fondai il Cineforum di Sarzana: Fellini, Bergman, Pasolini (“Il Vangelo secondo Matteo”), i registi giapponesi.

Incaricai Egidio Banti (che aveva quindici anni) a guidare il Cineforum dei ragazzi. Collaborai con il Cineforum dei Padri Gesuiti di Carrara. Chiamai, per gli incontri con la gioventù, sia il gesuita Angelo Arpa che lo scolopio Ernesto Balducci”.(nota 2)

Nel 1963 Sandro fu ordinato prete. Per due anni, fino al 1965, fu curato della Cattedrale di Sarzana. Racconta:

“Nel 1963 l’enciclica “Pacem in terris” aveva inaugurato un nuovo sguardo sulla pace, sul socialismo e sul comunismo. In quegli anni Mario Gozzini scrisse “Dialogo alla prova”. Si stavano svolgendo anche i lavori del Concilio Vaticano Secondo, che alimentò molte speranze di rinnovamento, ma incontrò molte resistenze nella sua applicazione.

Basti un esempio. Il primo gennaio 1965, nella Cattedrale di Sarzana, commentai il Capitolo quarto degli Atti degli Apostoli (“Erano un cuore solo e un’anima sola… nessuno diceva suo quello che possedeva…” – un testo che Marx considerava la de­scrizione del comunismo primitivo). Monsignor Dino Ricchetti, Rettore del Seminario, commentò: “Archeologia teologica!”. Quel testo sarebbe diventato uno dei più frequenti nelle letture della messa.

[…] Alla Biblioteca Comunale di Sarzana, nel 1965, lessi su “Rinascita” la “Lettera ai cappellani militari” di don Milani. Dopo la denuncia di don Milani per “apologia di reato”, inviai un biglietto di solidarietà al priore di Barbiana e poi, l’anno successivo, fui presente a Roma al processo contro don Milani e contro il Direttore di “Rinascita” Luca Pavolini.

[…] Nel 1963 avevo rifiutato un assegno di 100 mila lire inviatomi dal senatore Morandi, suscitando meraviglia e irritazione nella DC (per la verità, anche un altro prete aveva fatto la stessa cosa). Anche la mia partecipazione a un corteo degli operai della Vaccari, nel centro di Sarzana, aveva suscitato critiche.

[…] presi posizione pubblica contro la guerra condotta dagli americani nel Vietnam. I miei spostamenti e la mia partecipazione a incontri di carattere politico o culturale erano monitorati dalla Digos. L’ispettore Giurato mi chiese una volta, per fare il suo rapporto: “Sono arrivato in ritardo: quale era l’argomento della riunione?’”. (nota 3)

Egidio Banti spiega che don Sandro diventò “un punto di riferimento importante per tutti noi giovanissimi di allora”:

“[…] don Sandro organizza incontri di giovani di Azione Cattolica sui temi dell’educazione sessuale – allora quasi un tabù – invitando un suo amico, il giovane medico Salvatore Samperi, a tenere alcune conferenze”. (nota 4)

Lo scontro con il cattolicesimo conservatore, sarzanese e spezzino, si stava avvicinando. Il cineforum e il Vietnam, come vedremo, ne furono le micce.      

Giorgio Pagano

Note:

[1]-Giorgio Pagano, Maria Cristina Mirabello, “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”, Volume primo, Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2019, p. 506.

[2 ]- Id

[3] – Id. pp. 506-507

[4] – Id. p. 464

(da Ameglia Informa di gennaio 2022)

Da Sarzana a Cassego – 2ª parte

Sandro Lagomarsini, giovane amegliese del Liceo Parentucelli di Sarzana, era – mi racconta Andrea Ranieri – “uno degli studenti più bravi ma anche il più bello”: “Destò sensazione il fatto che andasse in Seminario… Molte ragazze si disperarono!”.

Dopo questa scelta, “si pensava che avrebbe fatto una carriera importante nella Chiesa… non ne entravano tanti di ragazzi così intelligenti… a rovinargli la carriera furono la sua fede, la sua intransigenza, a partire dall’opposizione alla guerra in Vietnam”.

Don Sandro, dopo essere stato curato alla Cattedrale di Sarzana dal 1963 al 1965, fu nominato Parroco di Càssego di Varese Ligure il 4 luglio 1965. Dal 1965 al 1968 frequentò Scienze Biologiche a Pisa. Dal 1966 al 1968 insegnò matematica e scienze nelle Medie e nel Liceo del Seminario. Così mi racconta il suo primo impatto con Càssego:

“Appena arrivato, mi venne incontro Angelo Piazza, il primo abitante che conobbi: «Siamo come pecore senza pastore», mi disse. Mi scontrai con una realtà tradizionalista. Anche in montagna c’era un classismo molto forte. I residenti allora erano 190, tanti venivano a messa, ma pochissimi facevano la Comunione. Quando chiesi il perché uno di loro mi rispose: «Se la facessi i compaesani direbbero: che cosa ha combinato di male per confessarsi?»”.

In quei tre anni don Sandro viveva in Seminario e raggiungeva Càssego al sabato: non c’era ancora l’autostrada, il viaggio durava più di due ore. D’estate, mi dice, organizzava un campeggio:

“Nel campeggio del 1965 una notte venne un gran temporale. La mattina dopo Egidio Banti, con la sua macchina da scrivere, scrisse il suo primo articolo”. Durante la settimana don Sandro andava all’Università di Pisa. Fu tra coloro che cominciarono la «contestazione».

Prosegue: “Nel 1967 partecipai alla prima assemblea alla Sapienza pisana, per chiedere – assieme ad alcuni professori incaricati, tra cui il professor Giorgio Mancino – una migliore organizzazione delle aule e del lavoro universitario (a Biologia il primo contestato era il professor Benazzi). Dopo i fatti del marzo 1968, andai a far visita in carcere a Federica Bosco”. (nota 1)

Don Sandro conobbe molti dei futuri leader del Sessantotto: Ovidio Bompressi a Carrara (al cineforum), Luciano Della Mea alla Spezia… Ma il suo punto di riferimento, come abbiamo scritto nella prima parte dell’articolo, fu don Lorenzo Milani:

“Ho cominciato a collaborare al quindicinale «Settimana del Clero» di Bologna nel luglio 1967, con un articolo sulla morte di don Milani. Gli articoli, una rassegna critica sul mondo cattolico, sollevarono molti malumori, particolarmente in alcuni Vescovi”. (nota 2)

Don Sandro mi racconta che non riuscì a conoscere don Milani: “Inviai alla parrocchia di Barbiana qualche riga a sostegno della sua posizione sull’obiezione di coscienza, ricevetti in risposta la notizia dell’uscita del libro «Lettera a una professoressa». Ne ordinai subito alcune copie e cominciai a presentarlo in giro. Andai a trovare don Milani insieme al sarzanese Pino Meneghini, ma padre Balducci mi disse che non voleva incontrare nessuno. Era malato, morì poco dopo, andai ai suoi funerali”.

Don Sandro sostiene che l’incarico a Càssego non fu una punizione. Questa ci fu, ma successiva: l’esclusione dall’insegnamento, nel luglio 1968: “A Cassego c’era bisogno di un Parroco. Il mio predecessore aveva costruito la colonia ma aveva avuto qualche guaio con la giustizia, perché complice del sottogoverno. […] La punizione scattò nel 1968. La DC e tanti preti, si lamentavano per i miei articoli, per il fatto che ero intervenuto a una manifestazione contro la guerra del Vietnam al Moderno e a un’iniziativa del PSIUP con Tullio Vecchietti… Il clima era «Dagli al comunista». […] Sempre nel 1968, con gli amici Giuliano Giaufret, Franco Carletti, Gianluca Solfaroli (non ricor­do altri), ho partecipato a qualche riunione del Circolo don Milani”. (nota 3)

L’«avversario» del prete amegliese fu il Vescovo Giuseppe Stella:

“Il 18 luglio 1968 il Vescovo Stella mi convocò e mi disse: «I preti non ti vogliono più in Seminario». Mi sono alzato e ho salutato. Non ho completato gli studi universitari, che avevo iniziato su richiesta del Vescovo. Con l’arrivo del Vescovo Siro Silvestri, nel 1975, ho ripreso la collaborazione con gli organismi diocesani. Ho rivisto il Vescovo Stella nel 1983. L’ho salutato cordialmente. Mi ha detto che seguiva la mia attività pubblicistica e l’apprezzava. Il Vicario generale Luciano Ratti mi ha portato per anni come esempio di «grandezza d’animo». […]

Anche il Cineforum fu oggetto di polemiche. Furono esautorate, per la gestione del Cineforum, figure come don Agostino Tassano, Delegato Vescovile per l’Azione Cattolica, spostato a fare il Parroco a Ceparana, e Gino Sbrana, dirigente dell’Azione Cattolica”. (nota 4)

La madre di don Sandro ormai aveva «accettato» il figlio prete. Si ribellò, mi racconta il figlio:

“Andò da Stella, ma lui non la volle ricevere”.

Da allora, per sette anni, fino all’arrivo di Silvestri, don Sandro non si mosse da Càssego, non scese mai né a Sarzana né alla Spezia.

Nel luglio 1968 cominciò la straordinaria esperienza del doposcuola. Mi spiega:

“Ho preso alla lettera «Lettera a una professoressa»: lascia l’Università, mettiti a fare scuola”.

Fu, come vedremo, un’esperienza di un livello e di un respiro alto, quanto meno nazionale: giovani di montagna che diventano protagonisti, scrisse Mario Lodi, di “un progetto di riforma della scuola, dal basso e dal di dentro”. (nota 5)

Giorgio Pagano

Note: [1] – Giorgio Pagano, Maria Cristina Mirabello, “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”, Volume primo, Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2019, p. 507. I fatti del marzo 1968 sono passati alla storia come “i fatti della Stazione di Pisa”, durante i quali vi furono scontri tra studenti e polizia. La studentessa Federica Bosco, sarzanese, fu tra gli arrestati.

[2 ]- Ibidem

[3] –  Ibidem

[4] – Ivi, pp. 507-508

[5] – Presentazione di Mario Lodi al libro di Sandro Lagomarsini: «Ultimo banco. Per una scuola che non produce scarti», Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2009, pp. 6-7.

(da Ameglia Informa di febbraio 2022)

Cassego: Il doposcuola – 3ª parte

Un progetto di riforma della scuola dal basso e dal di dentro

Dopo la cacciata dal Seminario di Sarzana don Sandro Lagomarsini si trasferì definitivamente a Càssego di Varese Ligure, così spiega:

Nel luglio 1968 iniziai il doposcuola a Càssego, con l’aiuto del sarzanese Cesare Bernardini e di alcuni amici genovesi, tra cui Luciano Trucco. Abbiamo aiutato prima alcuni rimandati a settembre, poi abbiamo preparato i giovani alla licenza media, necessaria per andare a lavorare in ferrovia, nell’autostrada, negli ospedali.

C’erano ragazzi in difficoltà, e ragazzi, soprattutto ragazze, ai quali i genitori non avevano voluto far fare gli studi. Li facevano bocciare perché potessero subito lavorare. Mi dicevano: «Vuoi coltivare le banane a Càssego?», oppure: «Vuoi raddrizzare le gambe a quelli?». Mi aiutava la maestra di Varese Ligure, Linda Merciari. Frequente la collaborazione di Pietro Lazagna e della moglie Carla.

Ebbi qualche discussione sulla scuola con Ferdinando Camon e scambi culturali continui con Franco Fortini. Partecipai, come doposcuola, a un progetto editoriale assieme all’antropologa Annabella Rossi e al fotografo Italo Zannier. Dal 1970 la collaborazione con il maestro Mario Lodi fu costante.” (nota 1)

Mi dice Andrea Ranieri:

“A Càssego don Sandro impostò la sua vita per esercitare la sua fede. Costruì un doposcuola ispirato a don Milani. In quel luogo andarono tanti uomini e donne di cultura. Lui usava gli stessi metodi di don Milani: li faceva interrogare dai ragazzi, erano loro che decidevano se erano stati bravi o meno. Fu davvero un’esperienza di notevole spessore”.

Leggiamo la testimonianza di un collaboratore, Cesare Bernardini:

Il nostro approccio iniziale era un po’ spensierato. Davo una mano in tutti i sensi: gestivo i ragazzi, preparavo da mangiare. Poi cominciammo ad usare molto la pedagogia di apprendimento dell’esperienza. Studiavamo don Milani e la pedagogia attiva e popolare di Célestin Freinet: testo e disegno libero, corrispondenza interscolastica, giornale degli studenti, lavoro cooperativo.

Fin dall’inizio usammo molto il cinema, una volta alla settimana. Iniziammo con Chaplin. Al mattino leggevamo i giornali, al pomeriggio li commentavamo.

Nel 1970 conoscemmo Mario Lodi, che aveva appena pubblicato Il paese sbagliato, il diario di un’esperienza didattica molto vicina alla nostra, incentrata sulla creatività espressiva del bambino”. (nota 2)

Diamo ora la voce agli alunni di allora. Mauro Semenza fu il primo:

“Quella del doposcuola fu un’esperienza davvero interessante. Mi piaceva matematica. Ho studiato il francese, e ho imparato a scrivere meglio in italiano. Don Sandro ci ha portati anche all’Università di Pisa. Al ritorno ci fermavamo a mangiare a casa di sua madre, ad Ameglia. È un’esperienza che ha cambiato la mia vita. Se non avessi incontrato don Sandro non ce l’avrei fatta. Studiavamo i temi dell’oggi e del domani. Ce ne fossero di quei preti!” (nota 3)

Mirella De Paoli aveva fatto la prima media a Varese: “A Varese c’erano due classi: una per quelli di Varese, una per quelli della campagna. Eravamo emarginati… Poi dovetti lasciare: occorreva forza lavoro a casa, per l’osteria-bottega di alimentari die miei genitori, che d’estate diventava anche locanda. Mio padre diceva sempre: ‘Le donne si sposano e non hanno bisogno di studiare’. Nel 1969 i ragazzi che frequentavano il doposcuola erano già venticinque. Riuscii a strappare il sì di mio padre per la licenza media.

Feci il tempo pieno, mattina e pomeriggio, nel 1969 e nel 1970. Alla mattina leggevamo i giornali le prime due ore, poi facevamo le materie. Leggevamo gli stessi argomenti su due testate diverse, quindi si apriva un dibattito. Andammo anche a teatro, allo Stabile di Genova per “Madre Courage” di Brecht, con Lina Volonghi. Per me era la prima volta, sia a teatro che a Genova. Tra ragazze e ragazzi c’era un buon rapporto. Mangiavamo assieme e facevamo i lavori a turno. Alla sera con un vecchio pullmino don Sandro portava tutti a casa. All’esame fui promossa con ottimo.

Nel 1970 facemmo la manifestazione a Varese contro le bocciature. Eravamo in quattordici, con i cartelli, il giorno di mercato. La gente ci guardava stupita”. (nota 4)

Il doposcuola, in quaranta anni, è stato frequentato da alcune centinaia di ragazzi e di giovani. La “storia di Sergio” (nota 5) e la “storia di Antonio” (nota 6) sono tra le più belle che mi siano mai capitate. Le ho commentate con le parole usate tante volte da don Sandro: “Che cosa si può tirar fuori dai ragazzi!”

Non poteva essere che don Sandro a celebrare il funerale di Mario Lodi il 4 marzo 2014 nella chiesa di Drizzona, dove il maestro aveva creato la Casa delle Arti e del Gioco.

Il prete amegliese disse:

«C’è un episodio del Vangelo che è, per me, il modello per il lavoro di ogni maestro, di ogni educatore. Gesù viene chiamato per guarire una bambina gravemente malata, ma gli adulti, con le loro urgenze, lo intralciano.

Quando Gesù arriva, la bambina è già morta, è entrata nel numero degli irrecu­perabili, dei perduti. Gesù dice che sta dormendo e, dopo averla avvicinata in presenza dei genitori e di tre discepoli, pronuncia solo due parole: “Talità, kum!”. Non si tratta di una formula magica, perché significa semplicemente: “Bambina, alzati!”. Ma Gesù ha usato il dialetto della bambina e si è messo talmente in sintonia con la sua realtà profonda, da riportarla alla vita». (nota7)

Giorgio Pagano

Note: [1] – Giorgio Pagano, Maria Cristina Mirabello, “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”, Volume primo, Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2019, p. 508.

[2] – Ivi, p. 509

[3] – Ivi, p. 511

[4] – Ibidem

[5] – Ivi, pp. 512-513.

[6] – Ivi, p. 514

[7] – In archivio don Lagomarsini.

(da Ameglia Informa di marzo 2022)

Per la dignità del mondo della montagna – 4ª parte

Il 4 giugno 1987 mille contadini, giovani e donne della Val di Vara raggiunsero Genova in torpedone, sfilarono per la città e manifestarono in piazza De Ferrari. Avevano i campanacci, i rami dei loro poderi, i cartelli con il nome del paese e scritte come “Sì ai piani regolatori, no a quelli sregolatori”.  “E in testa don Trattore”, sottotitolava “Il Lavoro”. Era don Sandro Lagomarsini, che salì su un camion pieno di ginestre e lesse il volantino preparato dalla gente di montagna:

«I piani paesistici mettono il territorio montano sotto il controllo di coloro che sono stati i responsabili dei guasti della città e delle riviere… Si deve riconoscere, per legge, che il primo elemento di salvaguardia del territorio è una presenza umana stabile. (Nota 1)

Quei montanari chiedevano che Stato e Regione riconoscessero “la dignità del mondo della montagna”:

«Alcuni giovani dei gruppi “extraparlamentari” consideravano il nostro lavoro nelle campagne come “battaglie di retroguardia”. Il periodo degli “anni di piombo” ci impedì a lungo di alzare la voce, in pratica fino alla grande manifestazione contadina del 1987: portammo a Genova oltre un migliaio di persone».

Ma era già cominciato il “riflusso” e avanzava velocemente la degenerazione dei partiti.

«Nel 1974 convinsi la nuova Amministrazione Comunale a iniziare l’assistenza domiciliare agli anziani. […] con vari convegni e alcune collaborazioni con la Comunità Montana indicammo una direzione possibile per lo sviluppo della Val di Vara.

In stretta relazione con il lavoro scolastico si è svolto il recupero della cultura e del patrimonio artistico locale. Ne sono nati il “Museo Contadino di Càssego”, la Cooperativa Lanivar (attiva dal 1981 al 1992), una decina di mostre estive (di cui la più importante è stata “Arte e Devozione in Val di Vara”), una lunga collaborazione con l’Università di Genova e altre Università europee. […] agli inizi degli Anni Novanta mi sono opposto ad alcune scelte “coloniali” dell’Am­ministrazione Comunale di Varese Ligure […] attuo da ventuno anni (dal 27 marzo 1997) una resistenza non violenta che mi ha portato a percorrere a piedi 21.900 chilometri». (Nota 2)

Da quando l’ha conosciuta – cinquantasette anni fa – il sacerdote amegliese è sempre stato “dalla parte della montagna”. Una sintesi efficace del suo pensiero è nel libro “Coltivare e custodire”, che raccoglie alcuni articoli pubblicati su “Avvenire”. Alla base c’è la convinzione contenuta nella premessa dei volumi “Sui monti d’Italia” dedicati agli Appennini, pubblicati da ENI tra 1972 e 1975:

“Oltre le strade veloci e i centri turistici esiste un territorio più ampio, più complesso, ricco di storia e di cultura”. (Nota 3)

Il futuro del mondo della montagna, secondo don Sandro, “non è il sistema colonialista del biologico, è il bosco, è l’agricoltura basata sui saperi territoriali ed ambientali, è la cultura artistica e storica”. (Nota4)

Leggiamo un passo del libro, tra i più “controcorrente”:

“E invece bisogna sparare ai lupi. Non dico di estirparli a tradimento con polpette avvelenate, dico di affrontarli con un fucile che spari pallottole di gomma o cariche di sale, capaci di lasciare il segno sulla pelle. Vi spiego. Da quando gode di una super protezione, il lupo si è fatto l’idea che l’uomo è quell’ani-male sciocco (o inesistente) che lascia un gregge incustodito dentro un recinto basso e fragile. Così, invece di assalire la pecora isolata o l’agnello debole che si può spolpare con calma per più giorni, il lupo istupidito di oggi uccide in una notte dieci o venti pecore che non potrà mangiare. Bisogna rieducare il lupo, che, ricordiamolo, è da millenni – almeno in Europa – animale antropizzato. […] bisogna tro-vare il modo di insegnare nuovamente a questi rustici amici a temere l’uomo”. (Nota5)

L’ambiente non si regola e si conserva da solo, senza nessun intervento dell’uomo. L’uomo deve regolare: è questo il vero rispetto della natura. Se non vogliamo perdere i mirtilli, per esempio, dobbiamo tagliare qualche albero. È un’impostazione debitrice della corrente di studio nota come “ecologia storica”, in cui sono centrali l’efficienza delle istituzioni comunitarie di base e l’autogoverno dal basso dei beni collettivi.

“Don Trattore” è certamente un uomo scomodo. Ma non solo. Leggiamo la definizione di Ismael Diarra, un ragazzo del Mali che ha frequentato un corso in un centro per rifugiati di Varese Ligure:

“Don Sandro veniva a Varese due volte alla settimana. Da lui abbiamo imparato tante cose, non solo la lingua: la nostra storia, la storia della Val di Vara. Don Sandro è un saggio. Mi ha trasmesso la voglia di imparare e mi ha incoraggiato a migliorare. Non si direbbe ma è uno che scherza. Mi ha fatto conoscere un mondo di vita”. (Fine)

Giorgio Pagano

Note:

[1] – Wanda Valli, “La campagna in piazza. I vostri piani ci stanno soffocando”, “Il Lavoro”, 5 giugno 1987.

[2] –  Giorgio Pagano, Maria Cristina Mirabello, “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”, Volume primo, Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2019, p. 519.

[3] – Sandro Lagomarsini, “Coltivare e custodire”, “Libreria Editrice Fiorentina”, Firenze, 2017, p. 112.

[4] – Giorgio Pagano, Maria Cristina Mirabello, “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”, Volume primo, cit., p. 519.

[5] – Sandro Lagomarsini, “Coltivare e custodire”, cit., p. 20.