(da Ameglia Informa di  gennaio e febbraio 2020 e febbraio 2021)

Lavatoi pubblici a Castelnuovo Magra
  1. La pulizia delle acque

Fin dai tempi più remoti, le malattie infettive affliggevano e decimavano le popolazioni, con terribili ondate epidemiche; mal comune mezzo gaudio? Neanche per idea! Ce ne sono state alcune di così nefaste, come la peste, la lebbra, il vaiolo, il colera e la pandemia influenzale del 1918-19 da stravolgere per sempre la storia dell’umanità per i loro effetti demografici, economici e sociali. Il proverbio più azzeccato, semmai sarebbe stato: a chi tocca, non pianga!

Come ci si difendeva, allora, da queste terribili calamità ricorrenti? In passato i governanti erano meno attrezzati e competenti di quelli di oggi e non disponevano di “commissioni di esperti”, ma sicuramente una cosa l’avevano capita anche loro. E cioè che prevenire è sempre meglio che curare. Dunque, quali erano le strategie intraprese dai governanti per schivare o almeno arginare la propagazione delle malattie epidemiche?

In realtà molto poche, ma un’attenzione particolare era certamente destinata alla potabilità dell’acqua che, prima degli antibiotici e della diffusione dei vaccini, era senz’altro uno dei fattori decisivi per preservare la salute pubblica.

Quindi  nelle nostre zone, un po’ ovunque, i legislatori si davano da fare a buttar giù norme che oggi sembrerebbero piuttosto ovvie: a Tivegna, ad esempio, negli Statuti del Quattrocento si vietava di introdurre il bestiame nelle vie del paese perché gli animali si sa, specialmente in estate, hanno bisogno di bere; e dove potevano andare a dissetarsi quelle povere bestie, se non alle fontane pubbliche dove tutti gli abitanti si recavano a prendere l’acqua potabile? E così, le ignare bestiole rischiavano di contaminare le fonti idriche; anche gli statuti di Falcinello (1467-1468) ribadivano la necessità di salvaguardare il borgo e le sue fontane, che costituivano l’elemento principale di sopravvivenza.

Sporcare le acque dei canali e delle fonti, secondo le leggi di Ponzano (1543), costituiva un vero e proprio reato contro il patrimonio pubblico; per questo motivo non potevano essere lasciati a macerare nell’acqua il lino, la canapa, le ginestre. Perché non esisteva la pratica acqua minerale in bottiglia, e l’acqua delle fonti era l’unica che si poteva bere. Perciò, quella preziosa risorsa idrica, da cui dipendeva la salute pubblica, doveva essere periodicamente controllata e ripulita dagli ufficiali sovrastanti alle acque e da tutti coloro che l’avevano imbrattata.

Gli statuti di S. Stefano del 1533 tutelavano espressamente le acque sorgive, usate come fontane pubbliche, che non potevano essere contaminate; neanche i Santostefanesi avevano ben chiaro il concetto di “contaminazione” delle acque, perciò il legislatore glielo spiega ancora meglio: gli spazi adiacenti alle fonti devono essere mantenuti sgombri da ogni bruttezza, da sostanze putride e, in genere, inquinanti. E se proprio non potete fare a meno di piantare salici, vetrici, ginestre o altro non fatelo nel perimetro della fontana e fino ad una distanza di dieci braccia; inoltre, dato che avete l’abitudine di macerare lino e canapa, che non vi venga in mente di farlo nelle vasche pubbliche. Chiaro il concetto?

Nel borgo collinare di Nicola, sorgenti o polle perenni proprio non ce n’erano. Quindi?  il problema della disponibilità d’acqua potabile era stato risolto scavando ampie cisterne di raccolta delle acque  piovane; queste acque pluviali poi venivano convogliate dai tetti dei palazzi. Benissimo: risolto il problema delle fontane sudice, usate come abbeveratoi, che preoccupava gli altri borghi? Neanche per idea: mantenere quelle acque adatte al consumo umano non era per niente semplice; innanzi tutto i muri, le volte ed i pavimenti delle cisterne dovevano essere costruiti di buon pietrame, ottimi mattoni e cementati con la migliore malta di calce idraulica e cemento o pozzolana.

La pulizia dei tetti da cui scendevano le acque doveva essere scrupolosa, quindi non dovevano sostarvi piccioni o altri volatili; con le buone o le cattive, le mandrie si potevano allontanare dal borgo, ma chi glielo spiegava agli ingenui uccellini che non dovevano fare i bisognini sui tetti che alimentavano le cisterne?

Occorreva poi impedire l’attecchimento di muschi e borracina. Perché se non era piacevole scovare sassolini, pezzi di cemento o escrementi d’uccello nel bicchier d’acqua, neanche era raccomandato ripescarvi muschio, foglie o erbette varie.

I tetti non potevano avere coperture in ferro o rame e le condotte dovevano essere in muratura o coccio. Sul fondo della cisterna era realizzato un serbatoio detto “purgatorio”, in cui si depositavano le impurità più pesanti. La prima pioggia non doveva cadere nella cisterna perché serviva a lavare il tetto.  E un po’ di superstizione non ce la vogliamo mettere? La pioggia di luglio non poteva essere raccolta, perché si pensava che avrebbe fatto marcire anche la riserva d’acqua già depositata.

Anche la vicina comunità di Ortonovo doveva fare i conti con il problema della pulizia delle acque; nel paese, fin dal 1498, esisteva una buca o vasca nella quale si raccoglievano acque sorgive e, in cui le donne del paese si recavano a fare il bucato. Ma la fanghiglia e la melma presenti sul fondo rendevano difficile la pulizia della vasca, con grave danno per la salute pubblica. Questa precaria condizione igienica, infatti, era considerata la prima causa della diffusione della tubercolosi, che affliggeva soprattutto giovani ed adolescenti del paese. Bisognerà attendere fino agli Anni Trenta del Novecento per avere a disposizione i lavatoi pubblici; per le moderne lavatrici in casa anche qualche decennio in più!

Nella frazione di Serravalle – S. Rocco furono costruiti due lavatoi: non esistendo ancora il problema della tutela della privacy, gli Ortonovesi ne avevano destinato uno all’uso esclusivo delle famiglie che avevano in casa un malato di tubercolosi ed un altro alle persone sane.

Agli inizi dell’Ottocento, alla Spezia il Maire ordinava che ogni cittadino contribuisse annualmente con una giornata d’uomo, o col corrispondente denaro, ai lavori necessari per il risanamento del territorio dalle acque stagnanti.

Furono proprio i Francesi di Napoleone ad inviare l’ingegnere capo del Dipartimento degli Appennini, Graziano Lepère, per studiare il modo di prosciugare la palude di Arcola (Stagnoni) che era causa di epidemie di malaria. I Francesi non fecero in tempo a bonificare la zona perché fino al 1870, la piana di Migliarina era ancora paludosa, con stagni e stagnoni formati da acque ristagnanti, spesso putride, nelle quali veniva effettuata la macerazione del pellame per la concia, del lino e della canapa per la tessitura; immaginate in estate, con queste belle acque stagnanti e la fitta vegetazione palustre, come erano attive e “felici” le zanzare e l’altra fauna apportatrice di varie patologie.

Quando nel nostro Paese scoppiò l’ennesima, grave epidemia di colera (erano gli anni 1884-1885), l’allora ministro dell’Interno Depretis, decise di effettuare un’inchiesta  – guarda caso – sull’approvvigionamento idrico nel nostro Paese, ponendo particolare attenzione alla distribuzione delle acque potabili e al sistema fognario, nel loro insieme ritenuti responsabili della diffusione delle malattie infettive.

Da quella inchiesta emerse che solo la metà dei comuni italiani era dotata di condutture per la distribuzione dell’acqua potabile e oltre il 77% era sprovvisto di fognature; gli stessi acquedotti non sempre erano in grado di distribuire acqua con sicuri requisiti di potabilità. I risultati dell’inchiesta fornirono un’idea delle gravi deficienze del servizio pubblico degli acquedotti e sollecitarono l’emanazione della Legge 14 luglio 1887. Con questa legge si prevedevano finanziamenti ai comuni per l’approvvigionamento di acqua potabile e di altre opere igieniche. Poco dopo fu emanata la legge sanitaria Crispi – Pagliani, del 1888, in cui si faceva obbligo ai comuni di dotarsi di acqua “potabile riconosciuta pura e di buona qualità”.

Ancora agli inizi del Novecento, la popolazione dei borghi liguri tirava avanti in condizioni di igiene ambientale decisamente arretrate: strade sterrate, mancanza di acqua corrente, sistema fognario fai da te, vie di comunicazione sconnesse e non asfaltate e così via.

          

Perciò furono decisamente fortunati gli abitanti di Pugliola, perché nel piccolo ma affascinante borgo ligure si stabilì una ricca coppia inglese che, sulla scia della cultura filantropica tipica della società britannica di fine secolo, realizzò a proprie spese una serie di opere di pubblica utilità, spesso collegate ai vari utilizzi delle acque.

Helen Lavinia e il cavaliere William Percy Cochrane, che avevano acquistato la villa Rezzola di Pugliola, tra le altre numerose opere benefiche, finanziarono la costruzione della condotta di acqua potabile da Bonezzola alla frazione di Bagnola, il lavatoio coperto sempre di Bonezzola (foto sopra) e un grandioso fabbricato nella piazza della chiesa, per uso di asilo infantile, sapientemente dotato di tre grandiose cisterne di circa 50 metri cubi ciascuna, in parte sotterranee, che oltre ai fabbisogni dell’asilo, in certi momenti servivano ai fabbisogni delle famiglie vicine.

Oltre a queste opere che dimostrano la rilevanza delle risorse idriche per il miglioramento della qualità di vita dei suoi concittadini, il cavalier Cochrane e la consorte si preoccuparono di sistemare i loro contadini in comode case coloniche e di costruire stalle moderne e concimaie.

Per l’ospedale di Sarzana, il nobile benefattore inglese fece edificare un padiglione per le malattie infettive e contribuì alla realizzazione di una moderna lavanderia a vapore.

Eppure, nonostante, l’obbligo per i Comuni di  attrezzarsi per fornire ai cittadini acqua potabile, pura e di buona qualità risalisse al 1888, a Trebiano, sessant’anni dopo, dell’acqua bevibile non ce n’era ancora traccia: gli abitanti del borgo, per procurarsela, dovevano scendere ai pozzi privati di Ressora, a circa mezz’ora di cammino e poi risalire il ripido sentiero, con il pesante contenitore pieno d’acqua, sia in estate che in inverno. Per lavare i panni, le massaie erano costrette a scendere fino al fiume: con quale disagio e fatica, specialmente nei mesi estivi, si può facilmente immaginare.

Il CLN di Romito chiese allora di riprendere in mano il progetto già approvato dall’Amministrazione Bertella per la costruzione di un acquedotto, allacciandolo a quello del Ponte di Arcola. In quel modo non sarebbe stato necessario edificare altri costosi serbatoi e per la spesa, comunque, si poteva richiedere un contributo agli abitanti del borgo, sia economico, sia in giornate di lavoro.

Emblematico quanto accadde nell’estate del 1946 a Diano Marina; alcuni abitanti di quel Comune lamentarono forti febbri e disturbi gastrointestinali e, in quattro e quattr’otto si diffuse un’epidemia di tifo molto grave. Complice il caldo estivo, nel giro di un paio di mesi, si ammalarono 891 persone, e di queste 61 morirono (dati ufficiali forniti dal Ministero dell’Interno). Forse le vittime furono anche di più per il semplice motivo che, almeno all’inizio, alcune persone colpite erano fuggite da Diano Marina (questa abitudine è dura a scomparire anche ai nostri tempi!), e di loro non si era saputo più nulla.

Anche stavolta, all’origine del contagio pare ci fosse l’avvelenamento delle falde acquifere. La causa dell’epidemia, infatti, venne identificata ufficialmente nell’alterazione dei pozzi superficiali del civico acquedotto.  Subito, i giornali dell’epoca cercarono di costruire “il caso” pubblicando la notizia –smentita poco dopo-, che la contaminazione fosse stato provocata da alcuni cadaveri di soldati tedeschi, sepolti vicino all’acquedotto.

Presto si scoprì che l’inquinamento era semplicemente stato provocato dal fontaniere che aveva omesso di gettare nella vasca dell’acquedotto i consueti quantitativi di cloro previsti per la potabilizzazione. Gli interventi delle autorità furono tempestivi ed evitarono un’ecatombe: la valle di Diano venne chiusa da una “cintura sanitaria”; i treni non si fermavano più e transitavano con i finestrini chiusi. Gli ammalati furono ricoverati in diverse strutture, dato che il piccolo ospedale locale  non poteva ospitarli tutti; nacquero così veri e propri “lazzaretti”, anche nei centri vicini, come nell’ospedale di Diano Castello. Il morbo fu debellato ed entro la fine dell’estate la situazione tornò alla normalità.

  1. L’igiene delle strade.

Per la tutela della salute pubblica, collegato al problema della potabilità dell’acqua c’era quello della pulizia dei pozzi neri e dello smaltimento dell’immondizia; fin dal Medioevo, le città e i borghi si presentavano invasi da rifiuti di ogni genere: dagli scarti di lavorazioni della concia delle pelli a quelli della macellazione, da quelli dei mercati, al letame degli animali. Le case dei poveri erano sovraffollate, prive di latrine e lavatoi e al loro interno venivano allevati anche gli animali, indispensabili al sostentamento delle persone.

L’abbandono incontrollato dei rifiuti era un problema anche dalle nostre parti, se già nel 1300, a Spezia, si dovevano scrivere ordinanze che imponevano di “purgare lo carobio” e “non abbandonare il letame e i rifiuti al confine della propria casa”. E vorrei anche vedere, penserete voi che differenziate puntualmente l’umido dal resto. Eppure qualcuno questo rispetto degli spazi pubblici non lo ha ancora ben capito neanche al giorno d’oggi!

Le leggi statutarie di Godano  (Sesta Godano) del 1526 andavano ancora più nel dettaglio: non solo vietavano di gettare sporcizia, o qualsiasi rifiuto nel borgo, ma anche di fare “bozzi”, cioè raccolte di liquami o marcite di stalla e di morchia dei frantoi; tutti questi residui dovevano invece essere raccolti e convogliati nei luoghi consentiti.

Anche a  Bolano era operante il divieto di gettare le immondizie sulle vie pubbliche e oltre che di lordare le sorgenti d’acqua, per quanto non sempre queste proibizioni venissero rispettate: nel 1647, il podestà richiamava ancora una volta gli abitanti, affinché portassero vie le immondizie gettate davanti alle loro case.

A Tivegna i macelli avevano anche l’obbligo di distruggere le carni di bestie ammalate.

Lo smaltimento dei rifiuti organici ed animali, nel borgo di Ortonovo, era stato “risolto” con la costruzione di grandi bottacci, cioè fosse profonde situate fuori dalle mura castellane, dove gli abitanti scaricavano le proprie turpitudines. Verrebbe da pensare: finalmente un paese dotato di un sistema fognario all’avanguardia e razionale… Peccato che le fosse venissero svuotate periodicamente e i liquami, mescolati con fogliame ed altri detriti, fossero sparsi nei campi, come concime! Tra i vari inconvenienti, oltre al cattivo odore, c’era quello della proliferazione degli insetti che invadevano le abitazioni, disturbavano le persone ed inquinavano gli alimenti. Questa precaria situazione igienica, specie nella stagione estiva, innescava le condizioni favorevoli per la diffusione di febbre tifoidea e dissenteria che colpivano soprattutto bambini e neonati, causandone spesso la morte.

Durante il periodo francese, il Maire della Spezia aveva imposto l’obbligo, ad ogni proprietario di mantenere pulito e di far ripulire, ogni otto giorni, il tratto di strada corrispondente all’estensione della casa. Ma si sa, certe abitudini sono dure a morire, perciò venivano inflitte severe contravvenzioni a chi gettava acqua e immondizie dalle finestre.

Quando iniziarono a diffondersi voci sull’ennesima epidemia di colera (agosto 1835), il Sindaco di S. Stefano di Magra, in seguito ad un ricorso degli abitanti del borgo “verso Bolano”, aveva perfino autorizzato l’apertura di una porta nell’antica cinta muraria, al fine di permettere il ricambio dell’aria insalubre. Pur di tutelare la salute pubblica, il primo cittadino non esitò a distruggere parte delle preziose mura medievali che circondavano il borgo.

Un centinaio di anni dopo, gli amministratori locali si trovavano ancora alle prese con il problema dell’abbandono dei rifiuti: l’ingegnere Carlo Alfredo Bertella, nel 1923, appena nominato Podestà di Arcola, dichiarava che vi era una forte necessità di curare l’igiene molto trascurata nel capoluogo che, a differenza delle frazioni, aveva vie spesso trasandate e sudice; i cittadini di Arcola avrebbero dovuto adeguarsi, smettendola una volta per tutte di considerare la pubblica via come il ricettacolo delle immondizie che buttavano dalle loro case.

In una Legge Nazionale del 1928 si tentava di arginare il problema della proliferazione delle mosche, che potevano diffondere malattie come il carbonchio, la febbre tifoidea, la tubercolosi, il vaiolo ed altre: si fornivano dunque informazioni su come dovevano essere mantenuti i rifiuti in casa, in recipienti coperti, fino al momento della loro asportazione e su come dovevano essere pulite le scuderie o stalle, senza ammassi di letame; si imponeva anche il divieto assoluto di abbandonare le immondizie in terreni aperti o nelle pubbliche vie; si disciplinava la pulizia delle piazze, a seguito di feste o mercati. L’amministrazione provinciale della Spezia, per l’anno 1938, realizzò perfino una Gara per la campagna moschicida: un concorso a premi da distribuire fra quei Comuni (oggi si direbbe virtuosi) che avessero realizzato la migliore e più efficace organizzazione dei servizi.

  1. I cordoni sanitari.

Oltre alla salvaguardia delle acque potabili ed all’eliminazione dei rifiuti in modo pressoché salubre, un altro strumento per circoscrivere la diffusione di malattie gravi e mortali che, purtroppo, si ripresentavano di frequente, erano i cosiddetti “cordoni sanitari” (foto sopra).

In un proprio Regolamento, la Commissione Centrale di Sanità, nel 1661, istituiva un ufficio di Sanità in ogni città o villa della Repubblica Genovese, per controllare il propagarsi di epidemie facilmente trasmissibili, a causa del fitto traffico marittimo e terrestre.

Al giorno d’oggi siamo sbalorditi e avviliti per le rigide misure di contenimento del corona virus, ma l’isolamento era una prassi reiterata in caso di epidemie; a Sesta (Sesta Godano), già nel 1750, era stato stabilito che i viaggiatori provenienti da luoghi infetti fossero accompagnati in un lazzaretto e vi rimanessero per una ventina di giorni.

Nel 1753, nella Repubblica Genovese si decretava che ogni corpo di guardia fosse costituito da almeno quattro elementi, di età compresa tra i 17 ed i 70 anni, che dovevano vigilare ventiquattro ore al giorno. Alle guardie erano assegnate casette o capanne dislocate in ogni porto, spiaggia, scalo o ponte.

Nell’estate del 1797 si  ripresentò una maligna infezione bovina nelle zone del Parmigiano, Ferrarese, nel Piemonte e nel Milanese. Per evitarne la diffusione nello Stato della Repubblica Ligure, il Governo provvisorio vietò l’introduzione di animali vivi o morti e di pelli, privi di una fede di sanità che ne attestasse la provenienza.

Ma l’aspetto più sorprendentemente attuale del provvedimento era il divieto, per i residenti, di ospitare nelle stalle: zingari, persone erranti o quadrupedi, perché potevano favorire il contagio.

Era ovviamente vietato anche organizzare fiere di bestiame. I bovini da macellare dovevano essere riconosciuti vivi e sani da un veterinario e vigeva l’obbligo di denunciare immediatamente le bestie malate.

Se qualcuno avesse introdotto animali malati nella Repubblica, e dal processo fosse emerso lo scopo infame di diffondere la malattia, il possibile “untore” poteva essere condannato a morte, poiché quell’attentato era equiparato addirittura al delitto di lesa maestà.

E’ proprio vero che con la salute non si scherza!

Luciana Piazzi