(da Ameglia Informa di ottobre 2023)

Anche nel terzo articolo sulla Resistenza ad Ameglia mi soffermerò sul rapporto “tormentato e tragico” degli amegliesi con i nazisti, raccontando una storia inedita, accaduta anch’essa – come le precedenti – ottant’anni fa, nel 1943.

Nel primo articolo ho raccontato la storia di Giovanni Pelosini, ventenne di Tellaro, “che recuperò nell’amegliese, in località Montemurlo, insieme ad alcuni amici, armi abbandonate dai reparti alpini della divisione Alpi Graie sbandatasi nella zona” e che “venne gravemente ferito da colpi di armi da fuoco” dai tedeschi, per poi morire all’ospedale di Sarzana, l’11 settembre 1943.

Ma perché gli alpini della divisione Alpi Graie erano sbandati nella zona? Tutto nasceva dal fatto che La Spezia era la base della flotta della Marina e delle Forze Navali da Battaglia. Leggiamo un testo di Giuliano Manzari, dell’Ufficio Storico della Marina, sulle drammatiche ore successive all’armistizio dell’8 settembre 1943:

“L’ammiraglio Maraghini, la mattina del 9, non riuscendo a parlare con il comandante del XVI Corpo d’Armata (generale Carlo Rossi), di stanza alla Foce, poiché i centralini telefonici erano in mano a personale tedesco già presente in sede, diede le necessarie disposizioni per procedere all’allon-tanamento verso il centro Tirreno delle unità navali in grado di farlo e per il danneggiamento delle navi sugli scali o ai lavori e l’affondamento delle navi non in grado di muovere.

Il piano fu rapidamente attuato senza interferenze tedesche, grazie anche alla resistenza opposta dagli sparuti reparti delle divisioni alpina, Alpi Graie, e di fanteria, Rovigo che, pur senza ordini precisi, cercarono di contrastare l’azione tedesca, condotta dalle divisioni di fanteria 65ª e 305ª, riuscendo a ritardarne la marcia verso La Spezia, contribuendo, in tal modo, a far fallire l’attacco tedesco inteso a impadronirsi delle navi italiane” [nota 1].

L’esercito sbandò, il 9 settembre segnò la sua disfatta, che si concluse definitivamente la sera del 10. Ma, alla Spezia, la sua resistenza iniziale fu importante perché consentì alla flotta di salvarsi. Poi gli alpini e i soldati si rifugiarono nelle campagne e montagne vicine, pronti a combattere ancora. Ma senza capi, senza ordini, di fronte alla preponderante forza tedesca, tutto fu vano. Alcuni gruppi sbandarono nell’amegliese. Da qui le armi trovate da Pelosini, e la sua uccisione.

Una lettera del Podestà di Ameglia Giuseppe Germi al Prefetto, datata 17 settembre, certifica che gli alpini combatterono fino al 10:

“Le truppe predette [gli alpini] hanno fatto saltare il ponte denominato ‘Pontegrosso’ e hanno effettuato anche qualche sparatoria contro truppe tedesche catturando tre soldati tedeschi liberati poco dopo da alcuni loro commilitoni. Il giorno 10 le truppe alpine si scioglievano lasciando sul posto le armi e quanto altro di loro dotazione: delle armi abbandonate approfittavano alcuni giovanotti del luogo per effettuare alcuni spari, ma senza cattive intenzioni.

In seguito ai fatti di cui sopra, le truppe tedesche si facevano forse la convinzione che il posto fosse abitato da ribelli e da gente malintenzionata e per tal fatto disponevano il prelevamento di n. 25 ostaggi tra la popolazione. Tale cosa ha destato grande impressione in paese e la popolazione è pressoché terrorizzata.

Punta Bianca (2010) – foto Giorgio Pagano
 

Dato che la situazione è tornata normale, la popolazione si è mantenuta calma e nessun incidente si è più verificato, si prega codesta Prefettura di interporre i propri uffici presso il Comando Germanico per ottenere il rilascio degli ostaggi di cui sopra” [nota 2].

Gli ostaggi furono liberati. Ma rimase il giogo tedesco. Molti amegliesi furono costretti ad andare a lavorare con i tedeschi a Punta Bianca, a fortificare la costa. Leggiamo brani della testimonianza di Franco Tesi – allora un ragazzo – raccolta dalla pronipote nel corso della ricerca storica della Terza A della Scuola Media di Ameglia nell’anno scolastico 2013-2014, sotto la guida dell’insegnante Barbara Tom-masi:

“Ero stato scelto assieme ad altri ragazzi del paese per svolgere lavori faticosi durante la costruzione dei bunker che ancora si vedono a Punta Bianca. L’esercito tedesco si serviva di noi, però almeno ci davano da mangiare. […] Un giorno, mentre stavamo lavorando ad una fortificazione, l’ufficiale tedesco che ci sorvegliava mi raccontò che in Germania aveva lasciato la moglie e un figlio di 13 anni. Mi fece vedere la fotografia: due visi biondi e sorridenti; Fritz, si chiamava così l’ufficiale tedesco, conosceva bene l’Italia perché c’era stato prima della guerra e parlava la nostra lingua piuttosto bene.

Era un uomo molto simpatico, sorridente e pieno di vita, molto diverso dagli altri soldati tedeschi che non facevano altro che sbraitare e dare ordini. Ad un tratto incominciarono a bombardare sopra di noi gli aerei degli alleati, girando sopra le nostre teste, aprirono il fuoco. Noi cercammo un riparo nel fortino non ancora ultimato e quando finalmente l’aviazione si allontanò e uscii fuori, vidi Fritz steso a terra senza vita. Di tutti i morti che ho visto, e ne ho visti tanti, questo è l’unico che mi è rimasto impresso”.

Punta Bianca, la lapide ai caduti della missione Ginny (foto Giorgio Pagano 2022)
 

La più grande strage nazista della provincia avvenne proprio a Punta Bianca, dove i nazisti uccisero, il 26 marzo 1944, quindici soldati americani. Ma anche a Punta Bianca c’erano i “buoni tedeschi”.

Come Fritz. Come Rudolf Jacobs, soprattutto: un giovane sottufficiale che aderì alla Resistenza per riscattare insieme la sua biografia e quella del suo Paese. “Sono pronto a dare la mia vita purché abbia termine questa guerra insensata”, disse presentandosi ai partigiani sarzanesi della Brigata Muccini nel settembre 1944. Jacobs era giunto in Italia nell’autunno del 1943 per lavorare a Punta Bianca. Il 3 novembre 1944 una squadra di dieci partigiani della Muccini, in uniforme tedesca, capeggiati da Jacobs e dal suo attendente Paul, bussò alla porta dell’Albergo Laurina di Sarzana, sede della compagnia della Brigate Nere, chiedendo di entrare. Lo scopo era eliminare tutti i militi del presidio, riuniti per la cena. Lo stratagemma però non riuscì, anche perché i fascisti si dimostrarono molto prudenti: Jacobs uccise il piantone, si gettò oltre la soglia ma al secondo colpo la sua arma si inceppò. Nella sparatoria rimase ucciso, mentre i fascisti contarono due morti.

Jacobs è un simbolo, come Paul: la prova che la Resistenza italiana ha un significato che trascende l’ambito nazionale. Non fu solo un fatto patriottico, ma europeo, internazionale, transnazionale [nota 3].

Giorgio Pagano

[note]

[1] Giuliano Manzari, “La partecipazione della Marina alla guerra di Liberazione (8 settembre 1943-25 aprile 1945)”, Bollettino d’archivio dell’Ufficio storico della Marina Militare, Ministero della Difesa, marzo 2015, p. 18.

[2] ASSP, Prefettura Gabinetto, Occupazione germanica, b. 164.

[3] Sulla Resistenza europea, internazionale e transnazionale nella nostra provincia rimando al mio saggio “Quei disertori del Reich nel vento del Nord”, “Patria Indipendente”, 8 dicembre 2021.