Video, credit by BAD

(da Ameglia Informa di settembre 2021)

Il naufragio di Cala Marossa. Leggenda o realtà?

Cala Marossa, in dialetto ‘A Maossa, rientra tra i cosiddetti spiaggioni di Tellaro, piccole spiagge incontaminate e dal fascino selvaggio, da sempre frequentati anche da noi montemarcellesi fin dalle epoche più antiche. I nostri vecchi scendevano da quei canaloni franosi per portare gli animali al pascolo e per raccogliere frutti ed erbe selvatiche. In tempi più recenti questi angoli di paradiso, tra la macchia mediterranea e le ripide discese a mare, sono mete di turismo balneare e percorsi amati dagli appassionati di escursionismo e trekking. Il mare, che bagna questo tratto di costa, è di un bellissimo turchese con fondali per lo più rocciosi, ma la mia leggenda lo racconta così…

(da Tra leggenda e realtà)

MAROSSA

Spostandosi dalla scogliera di Punta Corvo per dirigersi verso Lerici, ad un certo punto si incontra una località marina, conosciuta con i il nome di Marossa, raggiungibile anche via terra, scendendo da uno dei tanti dirupi che da Montemarcello arrivano fino al mare. Lì si era recato un giorno, come aveva fatto tante altre volte, il giovane Berto. Era sceso dal paese sul far del- l’alba con le sue capre per portarle a rifocillarsi con le appetitose erbe dal sapore marino che crescevano tra le rocce della gariga. Come sempre le sue bestiole si erano abbarbicate nei posti più impensati per gustarsi tranquillamente il cibo a disposizione, mentre egli aveva continuato a discendere lungo i sentieri fino al mare.

Arrivato alla spiaggia si era arrampicato su uno degli scogli più alti per osservare il lento ed incantevole sorgere del sole. Era uno spettacolo al quale Berto era ormai abituato, ma, chissà perché gli sembrava sempre diverso o per la direzione del sole o per i colori che l’accompagnavano, per questo ogni volta che gli era possibile, ne annotava i tratti salienti riproducendoli su un foglio, soltanto sollevando o pressando di più la punta della matita.

Mentre era intento a que-st’arte intravide un navicello che si apprestava ad aggirare la scogliera a levante: sembrava molto grande anche se ancora poco visibile, così avvolto com’era dai bagliori dei sole mattutino.

Non appena l’astro si alzò del tutto nell’azzurrino del cielo, Berto arrotolò il foglio sul quale aveva disegnato e se Io infilò in tasca. Si pose diritto sullo scoglio, rivolto verso il fianco della collina dove le sue capre stavano ancora a mangiucchiare e le osservò a lungo. Poi si girò verso il mare. E fu allora che si accorse che navicella stava pressoché nella stessa posizione di quando lo aveva avvistato: eppure era già passato un bel po’ di tempo!

Il giovane, incuriosito e un po’ preoccupato da quel lento incedere, avanzando di scoglio in scoglio, raggiunse il luogo in cui poteva osservare più facilmente l’indolente imbarcazione. Intanto il mare aveva cambiato movimento: la calma dell’alba stava lasciando il posto ad una strana increspatura delle onde che già fremevano contro lo scoglio sul quale si trovava Berto; intanto il navicello aveva ripreso ad avanzare, seppur lentamente: ciò rassicurò il giovane. Fu allora che decise di ritornare nel posto dove aveva lasciato le capre.

Mentre risaliva la scogliera si fermava di tanto in tanto a raccogliere erbe e frutti commestibili e li riponeva nella bisaccia che teneva legala in vita. Quando fu vicino al luogo di sosta delle sue bestie, anche’gli si fermò e si sedette su un sasso ampio e comodo che gli permise perfino di occuparlo con tutta la schiena, restandovi tranquillamente sdraiato a pancia in su. In quella posizione rimase per un po’ con gli occhi fissi al cielo dove stavano accumulandosi candide nuvole che, come sempre succede, assumevano ora una, ora un’altra forma. Intanto che Berto gareggiava con sé stesso nel riconoscere gli oggetti di bambagia che comparivano e rapidamente si dissolvevano nel ciclo, avvertiva il rumoreggiare del mare. Quando si alzò da quella posizione, istintivamente, cercò con Io sguardo il navicello che per tutto quel tempo aveva dimenticato. Lo rivide mentre procedeva traballante ed insicuro tra il mare increspato.

Un’imbarcazione di quel tipo e in buone condizioni non avrebbe dovuto temere in alcun modo quelle modeste onde, ma evidentemente quella nave, pur con uno scafo robusto e una degna velatura, ora, per qualche motivo si trovava in difficoltà. Berto si allarmò, consapevole di non poter far nulla, ma deciso comunque a tentare l’impossibile. Lasciò le capre e la bisaccia ed istintivamente prese a salire a rompicollo su per il dirupo arrivando stremato al paese.

Raccontò il fatto a tutti quelli che poté che, senza temporeggiare, si precipitarono alla spiaggia, muniti di attrezzi e di corde per portate soccorso.

Si accorsero immediatamente che non era umanamente possibile dare aiuto dalla spiaggia a quel navicello che piano, piano stava silenziosamente inabissandosi sotto i loro occhi increduli ed atterriti. Non si seppe mai da dove fosse venuta quell’imbarcazione né dove stesse andando, ma col tempo si suppose che forse era diretta a Genova o ancor più lontano, in Francia, per consegnare alle diffusissime tintorie del primo novecento il carico di colorante porporino che invece si riversò totalmente in quel tratto di mare. L’arrossamento delle acque, che ne conseguì, suggerì il nome di “Marossa” (foto a sinistra) per questa nostra località marina, tristemente memore di un fatto tanto doloroso. E c’è chi ha giurato, che per lungo tempo e per particolari condizioni del mare, di aver visto quello specchio d’acqua diventare di nuovo rosso, ma anche queste… sono solo fantasie.

Rosanna Fabiano