I ricordi di bambina, nel periodo più buio della nostra storia, raccontati da una nonna mentre naviga su una barca a vela di nome Sventola, sul nostro mare (ligure).
(inizio a puntate da Lerici in di maggio 2021)
Introduzione – Sventola: un mare di memorie a Santa Teresa
Con questa “barchetta” per la prima volta “approda” nella nostra redazione Franca Gambino, nome già molto noto nell’ambito artistico non solo spezzino ma anche nazionale per la sua vulcanica attività di soprano, insegnante di musica e canto, scrittrice, poetessa, redattrice presso testate giornalistiche e case editrici. Tra le sue opere edite: La valigia rossa, Indagine incompleta, Indagine ultimata. La redazione di Lerici In le dà il suo benvenuto ringraziandola di cuore. (nd.r.)
Mio figlio ha una barchetta, ancorata nella baia di Santa Teresa, che si chiama Sventola. È così’ che grazie a Sventola ho imparato a capire che il mare è grande custode di memorie.
Si sa che oggi siamo tutti prigionieri della fretta. Con il mare invece non si può: il mare non ha fretta e non ti permette di averne.
Nessuno sembra crederlo, ma il mare ama le radici. Davanti a lui, sedendo tranquilla, mentre mio figlio guerreggia con cime e corde di ogni diametro e tipo, ritrovo chi sa come antiche radici che credevo perdute: mio suocero in divisa da ufficiale di Marina; mio padre, imprenditore fra le navi al Porto di Genova, sempre in faccende con armatori agguerriti e combattivi; la mia nonna Angelita, che sulle spiagge andaluse aveva ballato il flamenco, e suo marito, il nonno Raffaele (della stirpe dei Sacerdote) che dalla Sinagoga genovese di via Assarotti, attraversando l’oceano, aveva raggiunto le pampas argentine per “fare fortuna nelle Americhe”.
Decido che tornerò qui presto, a Santa Teresa. Seduta a poppa di Sventola raccoglierò ricordi, come da piccola sulle spiagge conchiglie e sassolini. Senza un vero motivo, o forse per un motivo segreto, che adesso, all’improvviso, a me appare evidente: ci sono radici che nella fretta noi dimentichiamo, ma che bisognerebbe serbare, e tramandare, per-ché non sono solo ricordi, forse, o nostalgie, magari addirittura rimpianti. Sono “la Storia”. La Storia viva, quella piccola, fatta di piccole cose e persone, che non si impara a scuola dove si studia la Storia vera, quella importante. Questa che ora qui ho ritrovato è una Storia che si vive senza saperlo. E che magari credevamo di avere dimenticato.
Il mare oggi me l’ha restituita, dentro ai riflessi imperterriti delle sue schiume e increspature eterne.
Mi piacerebbe raccontarla, a chiunque la voglia ascoltare. Magari, da nonna che sono, anche ai bimbi che d’estate vengono a fare lezioni di vela. Anche perché (come una volta si diceva) i tanti ricordi di cui i vecchi sono custodi non vadano per sempre perduti. E rimangano ai giovani come preziosa, affettuosa memoria. (segue)
Franca Gambino
(da Lerici In di giugno 2021)
1 – Un amico che non si può lasciare: il mare
Questa mattina, una frizzante mattinata di libeccio, dall’armadio delle memorie che Sventola ha il potere di evocare escono chi sa come disegni di addii.
La guerra scatenata sul porto, una notte, aveva dipinto il mare con fiamme violente rosse e gialle. Mamma guardava muta, con le mani allacciate intorno alle mie spalle, stringendomi forte; papà spingeva perché entrassimo in cantina dove trovavamo rifugio fra sacchi di sabbia ammassati, turandoci le orecchie con le dita per non sentire il fragore delle bombe. (Genova, guardando il porto da una terrazza dei quartieri alti, 22 Ottobre 1942…).
Più che alle bombe, però, io continuavo a pensare al mio amico: le sue spume salate, le sue arrabbiature improvvise, ma poi la pace fatta con le sue carezze, quando ero stanca, accasciata sulla sua riva.
Per quanto bambina (o forse proprio per questo) mi facevo domande. Perché gli uomini vogliono sciupare con bombe e fiamme quelle acque così trasparenti?
Anche io forse da grande sarei diventata così stupida? Lui, il mare, era la culla di quelle barche enormi (altro che Sventola!…) che mio padre qualche volta mi portava a vedere: giganti con ponti, oblò e fiancate luccicanti adagiate sulle acque verdi e ferme sotto le banchine. Il Rex…. il Roma e il gemello Augustus.
Chi lo sa se erano proprio quelle che vedevo a volte dalla balconata del terrazzo, giganti, con quei nomi così sonori, troneggiare come regine sulla distesa scintillante del mare. Lui, il mare, il mio amico immenso, era però anche la culla di quei pesciolini guizzanti che io cercavo di acchiappare alla Foce, quando arrivavano le barche da pesca, per farli vivere ributtandoli in acqua, fra le risate degli uomini con in mano le reti….
Subito dopo quel 22 di ottobre fui costretta a lasciarlo, il mio amico azzurro, un po’ per paura delle bombe e un po’ perché avendo un nonno “ebreo” non ero più gradita fra le altre alunne, a scuola. E anche questa mi pareva soltanto un’altra grossa e incomprensibile stupidaggine dei “grandi”!
Da qui dunque gli addii: alla mia casa, alla mia scuola, e anche a lui, il mio “amico del cuore” tenero e terribile, con i suoi pesciolini e le sue Regine galleggianti.
1942, 1943, 1944, 1945… di paesello in paesello, ospiti di gente fidata, fra montagne dove non potevano raggiungerci gli uomini con gli impermeabili neri e le due S sulle mostrine dei colletti.
“Benissimo”, dice mia madre un giorno, arrivando ad una casetta sperduta. “Qui i tedeschi è sicuro che non possono arrivare.”
“Benissimo niente!” dico io, “Questi non sono posti dove stare.”
“E perché, signorina?”, dice mia madre.
“Ma non lo vedi, mamma?” dico io. “Perché qui non c’è il mare!!!!!”
(Forse sarà il libeccio… però vedo che Sventola con la vela annuisce. E mi sembra sorridere). (segue)
Franca Gambino
(da lerici In di Agosto 2021)
2 – 1938: Ebrei perseguitati sino alla terza generazione
Qualche volta Sventola è in vena di confidenze. Mi dice molte cose del suo volare nel vento, ma poi mi fa anche domande. È una barca giovane e veloce, però curiosa del passato, anche di quello parecchio lontano, com’è appunto il mio…..
“Io faccio la Maestra, sai…- mi dice. – Insegno a navigare ai bambini. Qualche volta, insieme a loro, ho ospitato addirittura anche qualche insegnante che li accompagnava, però le maestre sono un po’ noiose…. Chissà quanto noiose erano le maestre dei tuoi tempi, figuriamoci….”
“Io ho avuto una maestra sola – le dico io -, quando facevo le Scuole Elementari. Lei era simpatica. Peccato averla dovuta lasciare tanto presto e all’improvviso…”
“E perché?” tentenna Sventola scuotendo una vela.
“Perché dicevano che ero di razza ebrea”. E nel dir questo ritrovo di colpo in me il ricordo di quella perdita, e tutto lo sgomento di quei giorni, quando mi dissero che non avrei potuto ritornare nella mia scuola perché io non ero come gli altri: ero “diversa”. (Naturalmente per me questo voleva dire anche essere, in certo modo, “sbagliata”. Altrimenti perché avrebbero voluto allontanarmi dalla mia maestra e dai miei compagni? Tanto più che veramente li amavo).
Bisognava lasciarsi. Ed era molto triste dirsi addio. Addio agli amici, ai cuginetti, alle zie e agli zii… perfino ai canarini nella grande voliera. Si crede spesso, al giorno d’oggi, che dai nazisti venissero perseguitate solo le persone di religione ebraica. Ma non è affatto così. Io ero battezzata, mia madre era battezzata, la madre di mia madre era battezzata.
Però il marito di questa mia nonna si chiamava Raffaele Sacerdote. Mia madre era sua figlia, e perciò era una sporca ebrea comunque: per razza. Quando in una famiglia c’era qualche bisnonno ebreole cose si mettevano male!… perché i nazisti avevano deciso che si restava ebrei fino alla terza generazione.
“Non ho capito cosa vuol dire razza”, fa Sventola agitandosi. “Figurati se l’ho capito io!”, le rispondo, sincera. Chi l’aveva inventata e sviluppata quella storia della “razza”? E perché?
Un matto certamente, nessun dubbio! Eppure, e qui sta il vero problema, mezza Europa ci aveva creduto.
“Ascolta”, dico a Sventola, “tu ai tuoi allievi insegna solamente a navigare. Questa storia della presunta razza certamente ai bambini gliela spiegheranno bene le maestre, a scuola”.
“O.k.” annuisce Sventola.
“Cerchiamo di sperarci ….”, penso io. Ma non sono sicura che agli scolari di oggi si racconti proprio per bene la storia intera della “stupidità” assoluta del Male. Intendo dire proprio il Male, quello con la emme maiuscola, che ancora adesso si aggira per il mondo, magari con un ciuffo sulla fronte o con camice nero o bruno e stivaloni di cuoio fino al ginocchio.
Franca Gambino
(da Lerici In di settembre 2021
3 – Non uccidere: ma per i legionari in guerra era diverso. Così, c’insegnavano…
Queste chiacchierate con Sventola rispolverano sempre nuovi e insieme antichi frammenti di memoria. Forse è il suo dondolio. Forse il gruppo dei bimbi che con impegno si aggirano indaffarati intorno a strumenti marinari di cui devono imparare caratteristiche e funzioni, ma certo soltanto qui torno in un modo speciale a essere la bambina che ero. Non quadra dire che “ricor-do”. In realtà…mi trasferisco.
Il vento agita e increspa le onde, i ragazzini hanno voci sempre più lontane, ed eccomi minuscola, con due lunghe trecce, intenta a intingere la penna nel calamaio pieno di inchiostro, e poi con il “nettapenne” pulire bene il pennino. Bisogna scrivere, in “bella calligrafia”, una cronaca delle Giornate del Legionario. Ci hanno spiegato che i Legionari sono uomini eroici che vanno a combattere per conquistare, in Africa, terre nuove che faranno più ricco e potente il nostro Paese.
Il signor Parroco, veramente, insegnandoci il catechismo, ci aveva detto che uno dei Dieci Comandamenti era non uccidere, e che uccidere un altro essere umano era uno dei più grandi peccati pensabili. Di conseguenza io non riuscivo a capire bene come mai poi i soldati che andavano a uccidere gli africani fossero invece degli eroi. Lo avevo chiesto non ricordo bene a chi, ma la risposta che avevo ricevuta era poco convincente. “In guerra è un’altra cosa” mi aveva detto qualcuno. Il tono era fermissimo e non avevo trovato il coraggio di insistere.
Il mondo dei bambini, a quel tempo, era nettamente separato da quello degli adulti. In presenza mia nessuno avrebbe mai pronunciato la parola sesso, in famiglia, per esempio; e men che meno a scuola la mia maestra! Noi eravamo allevati in una sorta di mondo parallelo, dove dovevano esistere solo la Scuola, (rigoro-samente scritta con lettera maiuscola!), le compagne di classe, i giochi ai “Giardinetti”. Con le bambole in carrozzina per le bimbe e le “automobiline” a pedali per i maschietti.
Le foto di gruppo erano una sorta di gioco collettivo, con le maestre indaffarate a disporci in ordine di statura, e il divertimento che dava il dover indossare quel vestito così strano, uguale per tutte, con quelle bretellone ridicole fernate sul petto da una grossa M in metallo, che, ci era stato spiegato, era l’iniziale del cognome del Duce: Benito Mussolini.
Noi ci vestivamo, giocavamo, il fotografo arrivava con la sua macchinona ingombrante, appoggiata a un grosso treppiede. Si rideva. Ci si metteva in fila.
Intanto a casa, (io non lo sapevo) mia madre chiedeva angosciata a papà: “Ma è vero che Mussolini vuole entrare in guerra? Ma perché? E cos’è questa storia che adesso mio padre diventa un problema perché era ebreo? Che male poi ci sarà nell’ essere ebrei? “
“Vedi, Sventola, forse non andava bene quel modo di illudere i bambini – mi sfogo – preda di un improvviso ritorno alla realtà della baia di Santa Teresa con i bimbi, le barche, gli scogli, la mia amica per prima, con le sue belle vele. “Era meglio cercare di spiegarglielo, ai bambini, che cosa era la guerra. E che cosa era la persecuzione agli ebrei….”
Sventola questa volta dissente. E gorgoglia, dimenando la chiglia:” Ma no. Era meglio non fare la guerra e non inventarsi parole come “razza”, non ti pare?”
Ogni giorno Sventola diventa più saggia.
Franca Gambino
(da Lerici In… di ottobre 2021)
4 – Se gli uomini sono cattivi anche il paesaggio ne soffre
Da brava barchetta Sventola annuisce ondeggiando quando le dico: “Tu non puoi sapere che cosa sia la montagna, tu conosci solo il mare!”. “Io andavo in montagna tutte le estati”, le racconto. “La zia che mi accompagnava a fare le passeggiate mi diceva: “Senti che bel venticello. Qui l’aria pura fa molto bene”. Non avrei mai pensato che la montagna potesse invece diventare, dopo, una cosa tanto brutta”.
“E come mai dopo diventò brutta?” “Per via dei tedeschi, che avevano messo soldati dappertutto, e fili spinati, e bunker di cemento, che mi facevano paura”.
Quando scoprimmo la faccenda degli ebrei, e papà decise che per via del nonno ebreo noi avremmo potuto essere in pericolo, la decisione fu subito presa: rifugiarsi in montagna, appunto.
Presso gli amici di sempre, gli amici di tutte le vacanze felici, che ci avrebbero accolto e protetto.
Mi ricordavo i sentieri, le gite per more e per mirtilli, e il crocifisso di legno, piantato al bordo di un campo, e le mie soste con la zia sempre al fianco, sorridente e serena. Le persone tranquille, i piccoli greggi, i lavori dei contadini nei campi, i mucchi di fieno, i covoni di grano.
Non ritrovai nemmeno il crocifisso di legno; in quel posto c’era soltanto una lunga e grossa buca.
Per more e per mirtilli di certo nessuno andava più. E al posto delle pecorelle spuntavano invece ogni tanto qua e là, nei campi, i sostegni di ferro su cui poggiavano le mitragliatrici.
“Avevi molta paura?” domanda Sventola.
“Si. Avevo molta paura. Ma soprattutto ero triste. E ancora più che triste, arrabbiata di non capire… Perchè questi ebrei dovevano continuare a scappare? (Perfino io che ebrea non lo ero nemmeno…) E perché quel paesaggio così bello, una volta tanto dolce a ogni ora del giorno, adesso era deserto, popolato di marchingegni di ferro pronti a sparare sulle persone?
Poco prima della partenza avevo fatto la mia Prima Comunione… Mi ricordavo la mamma e il papà, al mio fianco, e dietro tutti gli zii e i cuginetti, e le due nonne, una severa con la veletta nera, e l’altra più mondana, con una “paglietta” un po’ sbarazzina (foto sopra).
Perché non potevo più vederli? Perché non potevo più stare con loro? In quei momenti odiavo la vociaccia di quel Duce che sentivo sempre parlare di guerra alla Radio. Questa guerra stava sciupando tutto. A cominciare appunto dalla montagna, che non era più la MIA montagna. Quella del MIO crocefisso, che ora non esisteva più”.
“Il paesaggio non si fa da solo”, dice Sventola, “Il paesaggio lo fanno gli uomini. E, quando gli uomini diventano cattivi, il paesaggio diventa brutto”.
Come sempre, ha ragione.
Franca Gambino
(da Lerici In di novembre 2021)
5 – Ricordi della Prima Comunione, prima della fuga
Le barche non possono capire tutto, di noi umani. Ma neanche noi capiamo molto di loro. Io ho i miei metodi per intendermi con Sventola, e di questo ormai tutti probabilmente si sono accorti.
Sventola certamente non sa che cosa sia per un bambino il giorno della “Prima Comunione”. Eppure non sembrava per niente annoiata ieri mattina mentre riguardando la vecchissima foto io andavo indietro nel tempo fino a quel giorno, a quella scena, e ai suoi “protagonisti”.
Annuiva convinta, approvando con l’albero maestro, mentre tentavo di spiegarle perché ancora quei momenti mi fossero tanto presenti, quasi ancora sentissi le voci canterine di quella tavolata d’estate, nella bella casa paterna con la grande terrazza, le torte, la zietta elegante a sorvegliarci in piedi sotto la tenda, fra gerani e ciuffi di biancospino.
Era un 29 del mese di giugno 1942. Santi Pietro e Paolo: onomastico di papà, che si chiamava Paolo. L’aria era di festa, come è naturale; nessuno poteva prevedere che pochi mesi dopo, di là dalla balconata, in una terribile notte di ottobre, avremmo visto divampare le fiamme giù, al Porto. Dopo di che la terrazza (con i suoi cespugli di biancospino) e il giardino (con il suo bel chiosco di fiorellini d’arancio) e la casa (con i suoi pavimenti lucidi odorosi di cera e di lavanda) sarebbero rimasti deserti, mentre noi sparpagliati ai quattro venti, niente più avremmo saputo l’uno dell’altro per tre anni interi.
Con le mie nipotine non ho mai parlato come parlo con Sventola, ricordando quel tempo: forse ho voluto risparmiare a due bimbe spensierate le cose che invece qui sul molo, vicino a queste vele bianche gonfie di vento, riesco a riscoprire quasi per miracolo nella memoria. Ma non credo di aver fatto bene. Tutti i bambini di oggi, forse, dovrebbero sapere che cosa può succedere quando gli uomini non sanno apprezzare a sufficienza, e anche difendere ad oltranza, le piccole semplici cose della vita come una merenda sulla terrazza per una Prima Comunione.
“Guarda”, ho detto a Sventola, “vedi questi volti? C’è Umberto, a sinistra, quello che sembra un po’ triste, un po’ più alto degli altri, seduto nell’angolo. Forse il cugino “preferito”, per me. Si ragionava insieme di tante cose, a volte. Lui, gran-dicello, incominciava a capire che non era una bella cosa chiamarsi Sacerdote di cognome. Perché suo padre sembrava vergognarsi di quel nome antipatico, troppo diffuso nei Registri della Sinagoga di via Assarotti. Mi aveva detto che i fascisti “ci odiavano”. Ma non sapeva spiegarmi perché. Mia mamma e suo padre erano fratelli, tutti e due si chiamavano Sacerdote e perciò tutti e due dovevano sentirsi odiati dai fascisti. Inutile domandarsi perché, ma ci sentivamo accomunati in questa stranezza sgradevole”.
Eccoli, in questa tavolata della foto, tutti gli amici più cari, invitati alla festa.
Al posto d’onore, proprio accanto a me, Giorgio, il mio “fidanzatino” delle gite in bicicletta durante le vacanze in campagna, tutti gli anni, dopo i bagni di mare. A sinistra la Cipriani, compagna gentile e silenziosa dell’ultimo banco, con gli eterni fiocchetti in fondo alle trecce, e in primo piano sulla destra, invece, “la Mimmina”, soprannome dato chissà perchè alla più piccola delle tante figlie della mia madrina di battesimo. Ed ecco “la Marmuggi” seduta a capotavola sulla destra (proprio sotto alle finestre del salotto, che nella foto però non si vedono).
“Perché me li ricordo ancora tutti, con tutti i loro nomi, uno per uno (dopo quasi ottant’anni !) e con questo dolore in fondo al cuore?” domando a Sventola.
Lei tentenna.
“Non li ho rivisti mai più, sai…” aggiungo. “Perché la diaspora non solo ci sparpagliò ma ci divise per sempre, e niente mai più ritornò come prima era stato, dopo quei giorni…. “
Sventola tace e tentenna.
“Perché gli uomini non si accorgono in tempo di quello che fanno ai bambini?”, incalzo un po’ alterata, arrabbiandomi. “Non si devono fare le guerre. Non si devono odiare le persone perché hanno un cognome invece che un altro, scusa, non ti pare?”, la provoco. Allora finalmente Sventola risponde. “Sono contenta di essere una barca”, mi dice. (segue)
Franca Gambino
(da Lerici In di dicembre 2021)
6 – Zio Peppino: sebben fascista, di cognome era Sacerdote…
Le piccole increspature del mare nella baia somigliano a quelle della mente. I miei dialoghi con Sventola sono tutti segnati da queste ondate oblique, spumose e indistinte. La nostra memoria si aggira tante volte in meandri inafferrabili che ci conducono (forse con loro scopi segreti…) nei labirinti dei ricordi.
Oggi Sventola tentenna al- l’apparire di un personaggio mai prima ricordato da me, nei tanti colloqui precedenti avuti con lei.
“Come si chiamava, insomma, questo tuo zio di cui non mi hai mai parlato prima?”
“Si chiamava Giuseppe Raffaele. Ma in famiglia lo chiamavamo Peppino”.
“Mi hai detto che era un fratello di tua mamma?”
“Sì. E per me era lo zio Peppino”.
“E perché ti viene in mente proprio adesso?”
“Guarda là, Sventola… lo vedi quel tipo che cammina sul molo seguito da cinque o sei ragazzini e ragazzine?”
Sventola annuisce.
“Ecco. – le spiego – Lui spesso ci veniva a trovare, con una fila così di ragazzini che lo seguiva; tutti miei cuginetti, figli suoi e della prolifica zia Norma, sua sposa. Il Duce aveva deciso che bisognava dare figli alla Patria. Era perfino scritto sui muri, un po’ dappertutto, a grandi lettere……”
“Chissà come ti divertivi, con tutta quella bella compagnia”, commenta Sventola.
“Per qualche anno è stato così infatti…-dico io- ma poi proprio loro sono stati i primi a dover scappare via…”.
“O bella. E perché ?”
“Lo zio Peppino era uno squadrista della prima ora… aveva fatto perfino la famosa “marcia su Roma”… sai cos’è ?”
“Non sono così ignorante… scusa…. La conquista del potere da parte dei fascisti”.
“Appunto. Si era guadagnato perfino un sacco di medaglie!”
“E dunque perché poi ha dovuto scappare? Lui e tutti quei figli che aveva fatto per darli alla Patria?”
“Vedi che le cose non le sai? Perché a un certo punto, dopo il sesto figlio, il Partito Nazionale Fascista si era accorto che suo papà (mio nonno) si chiamava Sacerdote di cognome.
Quindi, avendo quel cognome ebreo, doveva essere molto “sporco”, di quella sporcizia speciale che i fascisti avevano deciso di attribuire a tutta la razza degli Ebrei.
Sporco lui, il nonno, sporco lo zio Peppino e sporchi anche tutti i suoi figlioletti.
Alla Patria non sarebbero serviti. Si poteva semmai metterli su un treno e mandarli a fare qualche doccia in qualche campo di sterminio tedesco o polacco…”
Sventola tace. Poi, appena appena muovendo l’albero, accenna: “ Non li hai più rivisti?…”
“No”, dico io. “Dopo la guerra si erano tutti sparpagliati, di qua e di là… lui era malatissimo, la zia Norma già morta, qualche volta Umberto, il più grande, venne a trovarci…. Era diventato un giovanotto alto alto… ma poi lo perdemmo di vista. E lo zio Peppino poco dopo morì”.
“Vieni qui da me, a prenderti un fazzoletto…”, mi dice Sventola. “Tuo figlio li tiene nel primo cassetto dello scaffale di prua. E non piangere. Sono sicura che adesso saranno tutti in Cielo!”
“Lo credo anch’io questo. Ma piango lo stesso. Non per loro, ma per me, che devo assistere impotente alle prodezze dei tanti seguaci del Duce che oggi sopportiamo ancora…”
Qui però Sventola sforna un deciso dondolio d’invito.
E io lo accetto, inerpicandomi coraggiosamente sulla scaletta di poppa. (segue)
Franca Gambino
(da Lerici In di Gennaio 2022)
7 – Ultimo Natale di guerra
Visto che ormai è quasi Natale, Sventola è in vena di memorie…natalizie. Oggi mi fa rimproveri. “Possibile che di un gran giorno come questo tu non abbia proprio da raccontarmi niente?”
“Potrei dirti qualcosa, forse, -le rispondo- di un posto speciale, come un’oasi in mezzo alla bufera…
“Son qui che aspetto”, sussurra lei. E così, come sempre, la mia amica alata risveglia in me qualcosa che mi spinge al ricordo.
Erano solo una decina le case di quel posto sperduto chiamato “l’Alpicella”, dove mi trovavo con la mia zietta preferita, e anche un po’ tata, Clelia Enelina Prosperina Sacerdote, sorella minore di mia mamma. Nidi di partigiani, rocce e dirupi. Montagne liguri, lontane dai paesi di pianura presidiati dai Comandi tedeschi, e quindi rifugio sicuro per noi “ebrei erranti” (visto che un nonno ebreo io lo avevo avuto davvero…).
A tredici anni anch’io, come gli altri pochi bambini delle case vicine, pensavo solo a fare palle di neve, nei pomeriggi prossimi al Natale. La “Guerra” era rimasta “una cosa di città”: le svastiche e gli amici spariti, le voci dei “rastrellamenti” e la mia solita domanda senza risposta “Ma ebrei cosa vuol dire?”
Queste cose sembravano per fortuna lontane, viste da qui, all’Alpicella, dove le poche case si rannicchiavano intorno al campanile come pecore intorno al pastore.
In quell’ultimo anno di guerra (era il 1944) le nevicate furono abbondanti lassù, per tutto il mese di dicembre. Noi ragazzi, fasciati in sciarpe e maglioni, correvamo con gli occhi rossi e il naso congelato: “Prendi questa!” “Dài, Gianni, dài che ce la fai!” “Toni, guai a te se la manchi: te la faccio vedere io!” “Luigina non fare la stupida; vieni a darmi una mano, no?”….Battaglie memorabili.
Poi suonava la campana. Le donne entravano in chiesa per il Rosario della Vigilia. Noi gridavamo un po’ meno, per non disturbarle. La Vigilia !!! Grande giorno per noi con le palle di neve… ma poi fine. Perché domani è Natale, e non c’è tempo per giocare fuori. A Natale, dopo il lungo pranzo, si sta intorno alla tavola, al caldo del camino o della stufa. La mattinata è stata quasi tutta da passare in chiesa, fra addobbi e liturgie. Una chiesina piccola con poche panche scure ma un sontuoso altare di marmo, mai privo di candele. Il “signor Parroco” ha paramenti con ricami che luccicano e tutte le candele sono accese.
Ogni famiglia, presente al completo, occupa una o due panche. Si canta, tutti insieme. E l’odore di incenso è così forte che quasi mi stordisce un pochino. Gianni, Toni e la Luigina stanno composti, a mani giunte, inginocchiati e molto compunti. Solo ogni tanto ci guardiamo, sapendo che domani avremo di nuovo, fuori, le nostre battaglie fra la neve. Eppure si sta bene anche qui, cullati dai canti e dalla voce del signor Parroco…”Et benedicat vos…”… ”Tantum ergo…..”Nessuno qui si ricorda che in me deve esserci un pezzo un po’ troppo…”ebreo”. L’Alpicella mi ha salvato!
In Aprile, la guerra ebbe fine. E così non ebbi mai più, dopo quell’ultimo Natale del ’44, un altro inverno fra quelle quattro case, con le palle di neve alla vigilia e poi la gran festa con la chiesa piena di amici raccolti e silenziosi, intenti alla preghiera.
Soltanto l’anno scorso ho saputo, da un amico, che l’Alpicella non esiste più. Un po’ per volta, i vecchi sono morti. I giovani sono tutti andati in città. Le case sono vuote e alcune hanno muri pericolanti. Ogni tanto, un incaricato del Vescovo sale a vedere se occorrano lavori di restauro per la chiesa. Non c’è più nessun “signor Parroco” e non si canta più la nottte di Natale.
E anche bambini che fanno le palle di neve non ce ne sono più. (segue)
Franca Gambino