Il prossimo giovedì 25 si celebra per la prima volta il Dantedì. Francesco Sabatini, Presidente Emerito dell’Accademia della Crusca, lo scorso dicembre in una puntata della rubrica che conduce su Rai1 ha spiegato che l’insolito nome è stato coniato sulla falsariga di lunedì, martedì e via andare: giorno della luna, di Marte e, nel nostro caso, giorno di Dante Alighieri. Si è scelta proprio quella data perché è il Venerdì Santo del 1300, il giorno in cui il Poeta fissa l’inizio del viaggio ultraterreno che descrive nella Commedia.
Quest’anno, poi, ricorre il 700° della sua scomparsa, avvenuta nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1321 a Ravenna: una data che non pochi ovviamente ricordano in tutt’Italia. Molto tempo della sua vita il Poeta, come noto, lo passò in terra di Lunigiana. A lui, bandito nel 1304 dalla sua Firenze in cui mai più fece ritorno e girovago fra le corti dell’Italia settentrionale in cerca di rifugio, questa landa offrì spesso ospitalità. Da queste parti furono i Malaspina a mostrargli grande amicizia. Dante la contraccambiò negoziando su mandato di Franceschino Marchese di Mulazzo la pace con il Vescovo di Luni-Sarzana Antonio da Camilla, quei patrizi e l’Episcopato essendo da tempo impegnati in aspre contese per il possesso di due castelli.
Nella terra del Caprione, per una controversa testimonianza, il nome di Dante è rimasto associato al monastero di Santa Croce del Corvo. Un antico codice tramanda un’epistola che il monaco Ilaro inviò a Uguccione della faggiola, signore ghibellino e condottiero di ventura, per fargli avere copia dell’In- ferno che Dante gli aveva dedicato. Narra Ilaro, la cui presenza nel monastero figura solo in questo testo, di avere incontrato un pellegrino venuto a visitare il cenobio. Fra i due s’intreccia un colloquio nel quale il misterioso ospite rivela la sua identità al monaco che non l’ha mai visto fino ad allora ma che lo conosce per fama.
Dante confessa al religioso di cercare soltanto «pace», segno di quanto fosse il suo travaglio intimo. Quindi dà a Ilaro la copia dell’Inferno pregandolo di apporre delle postille a commento e spiegazione e di mandare poi il tutto a Uguccione avvertendo che, se il signore volesse leggere le altre parti, le chiedesse a Moroello Marchese di Giovagallo e a Federico re di Sicilia cui le altre cantiche sono dedicate.
Ilaro scorre il libretto restando meravigliato che argomento di tale tenore non sia espresso in latino. In quella lingua Dante avrebbe voluto comporlo e gli declama la prima terzina che, tradotta, così recita: «Canterò i regni ultimi che sono al di là del mondo corruttibile – e di come vasti si aprano alle anime, quali ricompense offrano – a ciascheduno secondo quanto hanno meritato».
In latino il Poeta aveva cominciato la Commedia ma presto, vedendo l’andamento delle cose, aveva cambiato idea per adottare «una lira che più si confacesse ai nuovi gusti». Dante, quindi, afferma di voler partire «ad partes ultramontanas», definizione abbastanza ambigua perché l’intenzione di andare al di là dei monti non chiarisce se il ghibellin fuggiasco voglia volgere il passo a settentrione o verso l’occaso.
Come che sia, l’epistola è documento di grande rilevanza sul quale gli studiosi si sono divisi, alcuni ritenendola autentica ed altri pensando invece che fosse invenzione di Boccaccio che la scrive nel codice di sua mano. Incapace di neppure azzardare un’idea sull’argomen-to, mi contento di dire che il Monastero del Corvo, proprio in virtù di questa lettera, è salito a rinomanza che valica i confini.
Alberto Scaramuccia